L’ombra del Padre. Il romanzo di Giuseppe
di Jan Dobraczynski
L’attesa e la semplicità di Maria
Il popolo di Israele attendeva il Messia da secoli, cioè attendeva Colui che avrebbe compiuto le attese di felicità e di compimento di tutto il popolo.
Maria, nella sua grande fede, attendeva con la certezza di una ragazzina che, con grande libertà, fiducia e rispetto, si rivolge a suo padre sicura che egli l’avrebbe esaudita, magari al di là di come lei si immaginava. La grandezza di Maria sta innanzitutto nella semplicità e nella fiducia con la quale attende da Dio il compimento del suo bisogno di essere felice. Per tutti, Dio era Qualcuno lontano e distante, come un re potente a cui non potersi rivolgere: per Maria è invece un Padre a cui ci si può e ci si deve rivolgere con fiducia.
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Il mondo in cui vivi – dicevano le donne – è immerso nella sofferenza come un sasso che cada nell’acqua. Dovunque andrai, dovunque ti rivolgerai, incontrerai timori, dolori, ansie. Vedrai malattie, fame e odio. Vedrai come soffrono gli uomini. E tu stessa conoscerai che cosa sia la sofferenza. Nessuno le sfuggirà. Ma le sofferenze degli altri ti addoloreranno più delle tue proprie. Tuttavia guarda con attenzione e cerca di scorgere anche quello che non salta agli occhi. Se l’Altissimo permette che tutti soffrano non lo fa perché voglia questa sofferenza. Il mondo si è allontanato da Lui come un figlio malvagio che abbandoni il padre. Ma Egli non l’ha ripudiato. Non l’ha messo in disparte come un lavoro mal riuscito. Vuole salvarlo e ha promesso questa salvezza. Avrebbe potuto sconfiggere la cattiva volontà dell’uomo. Egli, tuttavia, desidera che sia l’uomo stesso a comprendere il suo errore. Che si ricordi dell’amore del Padre. Noi da soli non ci riusciamo. E in questo vuole aiutarci. Manderà qualcuno che ha promesso. Giungerà da parte sua qualcuno che ci insegnerà…
Ricordatene, Maria. Ogni donna di Israele può essere la prescelta che partorirà il Promesso. Oggi o domani, o tra centinaia di anni quel momento giungerà. Perché Egli mantiene sempre le sue promesse. Per questo ogni donna deve ricordare che ciò che toccherà a lei non sarà soltanto la sua felicità e il suo orgoglio, ma anche la salvezza del mondo, la liberazione di esso dalle sofferenze…
Seduta ai piedi della madre Anna – o forse era già la zia Elisabetta che l’aveva presa in casa sua dopo la morte della madre – domandava:
“E non si può fare niente perché ciò che deve accadere accada più in fretta?”
“L’Altissimo” – si sentiva rispondere – “conosce il suo tempo. L’uomo non affretterà il suo tempo.”
“E se si dovesse chiederglielo?”, continuava a domandare. “Se si dovesse fare qualcosa per indurLo ad agire in fretta? Ho già visto tante sofferenze… Ne provo tanto dolore. Vorrei aiutare ciascuno. E allora bisogna dirGli…”
“Egli vede e sa.”
“Ma se ama, allora si lascerà commuovere. Bisogna soltanto dirGlielo, bisogna pregarLo, bisogna…”
“Maria! Devi ricordarti chi Egli sia. Neppure il Suo nome è consentito pronunciare. Le Sue vie non sono le nostre vie. I Suoi pensieri si innalzano molto al di sopra dei nostri. Quel che Egli ha deciso, è buono e immutabile.”
“E non possiamo offrirGli nulla per chiedere la Sua grazia?”
“E cosa mai vorresti offrirGli tu, ragazza? Che cosa hai tu che non abbia ricevuto?”
“E se Gli si offrisse ciò che è il massimo privilegio…?”
“Che intendi dire?”
Non lo spiegò mai con le parole. Ma dentro di lei di anno in anno cresceva il convincimento che dovesse certo esserci qualcosa che perfino una ragazza povera come lei poteva offrire al suo Creatore.
E una volta, in un pomeriggio di sole, quando all’intorno tutto si trovava nella più assoluta immobilità, qualcuno la chiamò… Era da sola. Ancora un momento prima, sul prato fiorito, non c’era nessuno. Vide all’improvviso colui che le parlava. Se ne stava un po’ in disparte, simile ad una colonna di fuoco.
“Ti saluto, Maria. Tutte le grazie dell’Altissimo sono scese su di te…”
La ragazza cadde in ginocchio. Strinse le labbra tremanti ad un sasso che sporgeva dall’erba con la ruvida superficie.
“Può mai essere…”, sussurrò.
“È così”. La voce proveniente dal fuoco aveva un suono deciso. La colonna di fuoco stava ora al di sopra di lei, ardendo, pur senza consumarsi. Udì:
“Non temere. Sei stata ascoltata. Sarai tu a concepire il Figlio…”
Le parole cadevano sul suo capo reclinato in una cascata risplendente. La riducevano in cenere e le donavano nuovamente la vita. Eppure non appena tacquero sollevò il capo. Continuava ad essere quella stessa ragazza spavalda che non temeva di domandare se si può chiedere all’Altissimo.
“Come può accadere tutto ciò?”
La voce sopra di lei si fece ancora più maestosa. E nello stesso tempo parve anelare per la meraviglia di quanto stava dicendo.
“Egli stesso si piegherà su di te. Egli stesso compirà tutto. Perché tutto è in Suo potere. Quanto sei fortunata, Maria! Egli vuole darti un segno. Tua zia partorirà un figlio, anche se il suo tempo è passato. Affinchè tu sappia… Maria, lo comprendi? Egli ti chiede se acconsenti. Chiede…”
La commozione le stringeva la gola, le lacrime le riempivano le palpebre. Di nuovo piegò il capo, affondò la fronte nel ruvido muschio che copriva la pietra. La colonna di fuoco continuava a stare sopra di lei, ma pareva piegarsi in un umile inchino. La circondava un silenzio così profondo, come se tutto il mondo attorno a lei trattenesse il respiro. Con la bocca aderente alla pietra, disse in un sussurro:
“Sono soltanto un’ancella. Quel che ha deciso il Signore, che mi accada.”
Non cadde una folgore, soltanto qualcosa di simile a un vento rovente passò rapidamente sopra di lei e la avvolse nel suo alito. La colonna di fuoco si piegò ancora più bassa, poi rimpicciolì, impallidì, scomparve… Si spezzò immediatamente il silenzio. Il mondo attorno a Maria tornò alla vita, si espresse con migliaia di suoni. Sentiva il mormorio della brezza, il cinguettio degli uccelli, lo scalpiccio degli zoccoletti delle pecore. Levò lentamente il capo. Davanti a lei non c’era più nessuno. L’erba non appariva riarsa nel punto in cui stava la colonna di fuoco. Il sole splendeva di nuovo come prima. Il gregge attorno belava. Il vento portava su dalla città la voce dei bambini che giocavano e il richiamo delle portatrici d’acqua.
Si passò la mano sulla fronte. Toccò incredula il suo corpo. Niente indicava quel che era successo, soltanto c’erano in lei una felicità e un rapimento che la stordivano. Soltanto un unico pensiero si faceva sentire con una nota d’ansia: il pensiero di Giuseppe…
Lo amava talmente, desiderava tanto che venisse ricompensato per la sua devozione e la sua bontà. Temeva che potesse sentirsi vittima d’un torto.
Ma respinse subito quell’ansia. Sentiva: se l’Altissimo aveva compiuto una cosa che andava al di là delle leggi del mondo creato da Lui stesso solo per riguardo verso il dono di lei, sarebbe riuscito a mostrare grazia all’uomo che aveva fiducia in lei e che a lei era caro. Non lo avrebbe danneggiato e umiliato. Gli avrebbe permesso di partecipare alla sua felicità.
L’incontro tra Maria e sua zia Elisabetta
Elisabetta, come tutto il popolo di Israele, aveva atteso da secoli che nascesse il Messia, Colui che aveva promesso di far conoscere Dio all’uomo. Ed Elisabetta, zia di Maria, ha una parte speciale in questo piano di Dio: lei sarà la madre di Giovanni, quello che avrebbe annunciato a tutti l’arrivo imminente di Gesù.
La gioia di Elisabetta e di Maria dice della gioia e del compimento che Gesù è venuto a portare nella vita degli uomini che decidono di lasciargli spazio nelle loro vite.
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Maria raggiunse veloce il cancello. Lo spinse così forte, da colpire addirittura il muro dirimpetto. Corse per il sentiero tra le aiuole. Improvvisamente la raggiunse una voce che chiamava:
“Maria!”
Riconobbe chi la chiamava. Corse in quella direzione. Vide Elisabetta. L’anziana donna anche lei si affrettava, pur ostacolata dal corpo appesantito dal bimbo che portava in grembo. Evidentemente anche lei aveva atteso con impazienza il momento dell’incontro.
Erano già l’una di fronte all’altra con le braccia spalancate, già Maria stava per gettarsi al collo della sua tutrice. Tuttavia ad un tratto l’anziana donna si fermò. Si piegò sgraziatamente, quasi si accovacciò in un’umile genuflessione. Maria anch’ella si fermò, stupita. Le sembrava che la zia non l’avesse riconosciuta, che l’avesse presa per tutt’altra persona.
“Elisabetta” – disse – “ma sono io…”
“Una grande felicità mi tocca, che la madre del mio Signore è giunta nella mia casa”, disse la donna profondamente inchinata.
Con le braccia voleva cingere le gambe di Maria. Ma ella sollevò Elisabetta, la strinse al petto.
“Che dici…?”, domandò con voce vibrante di commozione.
“Sei la più beata tra le donne, perché hai creduto…”
Aveva la sensazione che le mancasse il fiato in petto. Sì. Non era stata vittima di un’illusione. Non aveva sognato quello che era successo. Strinse le mani al petto traboccante di felicità. Lui c’era, c’era davvero! Si era avverato ciò che i secoli avevano atteso. E a lei, proprio a lei era stata donata quella felicità.
“Allora sai tutto?”, chiese con un sussurro ardente.
“So”, disse Elisabetta. “E anche se mi fosse rimasto un dubbio, ho ottenuto la conferma. Perché mentre venivo a darti il benvenuto il mio bambino si è mosso dentro di me… Per la prima volta! Ha dato il segno che vive, che la sua vita non è un’illusione… Oh, adesso non ho timore di nulla! Egli nascerà e sarà colui che gli hanno imposto di essere! Il mio Giovanni! Lo precederà… Oh, Maria! Sono accadute cose grandi e mirabili…”
Le parole di Elisabetta accesero ancora di più la sua gioia. Essa assomigliava a un fuoco che avesse avvolto un cespuglio secco e lo divorasse tra scoppiettii e stormi di scintille. Non poteva contenere in sé quella gioia. Non era avvezza a parlare molto, ma adesso aveva voglia di gridare e di rendere nota la sua felicità a tutto il mondo. Chiuse gli occhi, strinse le mani al petto. No, non era capace di trattenere per sé quello che traboccava nel suo cuore. Doveva parlare, cantare:
“Sii glorificato, mio Signore e Salvatore! Come posso esprimerti la mia gioia per il fatto che hai guardato la Tua ancella nonostante la sua piccolezza? Hai fatto sì che tutti gli uomini, tutte le nazioni mi chiameranno per sempre da Te benedetta. Quanto sei buono, Signore, quanto misericordioso. E sempre sei stato così, nei secoli. Hai aiutato i poveri, e ai ricchi hai mostrato lo splendore effimero della ricchezza. Così fosti e così sei. E tutto ciò che hai annunciato, tutto realizzi…”
Il giorno si spegneva, arroventando di scarlatto la sommità degli alberi. Ma per le due donne strette l’una all’altra sorgeva il giorno della felicità, dei sogni che si avverano.
La disponibilità di Giuseppe
Giuseppe era il promesso sposo di Maria. Ed entrambi si volevano davvero bene: entrambi erano fedeli e sinceri nel loro amore reciproco. Eppure, Maria rimane incinta fuori dal matrimonio, cosa che per le tradizioni ebraiche era molto grave, meritevole di morte. Giuseppe accoglie questo fatto con grande smarrimento, ma non con rabbia: la gravidanza di Maria non era spiegabile.
Ma l’Angelo svela a Giuseppe il piano di Dio: è un piano apparentemente assurdo, mai capitato prima nella storia del mondo. Dio decide di farsi uomo per mostrargli il suo amore per lui. Maria e Giuseppe sono la via con cui Dio realizza questo piano. La grandezza di Giuseppe sta nell’aver fatto spazio a Dio nella sua vita, senza riuscire a capire tutto subito, ma fidandosi di Dio perché aveva già sperimentato nella sua vita quanto Egli gli volesse bene.
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“Ho deciso di andarmene. Non trovo un’altra via d’uscita. Non vedrò più Maria”, pensava Giuseppe tra sé e sé, con preoccupazione. “Non potrei vederla. Se la guardassi, non riuscirei a credere alla realtà. Bisogna essere pazzi per non ammettere la verità di ciò che dicono gli occhi e gli orecchi. Eppure… Così debbo andarmene! Debbo fuggire! Ma se non ho fatto nulla di male? Perchè debbo scappare come un vigliacco, che teme la punizione? Se fuggirò, questa fuga farà sì che tutti mi giudicheranno indegno. Ma soltanto così posso salvare Maria. Io non posso accusarla. Debbo rinunciare sia a lei che al mio buon nome…”
“Non temere, prendila in casa tua…”
Sentì quelle parole come se qualcuno le avesse pronunciate ad alta voce accanto a lui. Si guardò vivamente all’intorno. Ma niente intorno a lui era cambiato. Continuava la notte, argentea e gelida. Il chiarore delle stelle era tanto vivido, che vedeva tutto attorno a sé. Non c’era nessuno. Nei pressi era cresciuto soltanto un fiore bianco, dall’intenso profumo. Del resto poteva darsi che il fiore fosse serrato e che soltanto nell’oscurità avesse dischiuso i suoi petali?
Si raggomitolò cercando calore nel proprio corpo. Si addormentò di nuovo. Nel sonno il fiore crebbe, divenne enorme, si piegò su di lui. Disse:
“Accoglila in casa come moglie. Non è stato un uomo a portartela via… Egli stesso si è piegato su di lei… Colui che nascerà sarà il Redentore atteso da tutti. Proprio di lei e di Lui parlavano i profeti. Giungerà per insegnare l’amore più grande. Non riuscirei neppure a dirti quanto Lui vi ami… Egli stesso ve lo dirà, genere umano. Egli stesso ve lo mostrerà. Ma prima che ciò accada, la cosa deve rimanere celata. Questo Egli vuole, per non abbagliare con la sua luce. Non vuole costringere. Desidera conquistarvi, come un ragazzo conquista colei che ama, travestendosi da mendicante e ponendo il suo cuore ai suoi piedi. Proprio tu dovresti comprenderlo…”
Giuseppe stava sdraiato tutto tremante. Adesso non sapeva più se dormiva o se sentiva davvero quelle parole.
“È possibile…?”, sussurrò.
“Tutto questo è vero”, gli parve di sentire. “Come conoscete poco Dio, pur avendo esperimentato tanto amore… Davvero non sapete fino ad ora chi Egli sia? Ascolta Giuseppe: vuoi tu rimanere presso di lei come l’ombra del Padre…? Acconsenti?”
Giuseppe sedette di nuovo. Il profumo del fiore si spandeva verso di lui nell’oscurità. Sul suo capo scintillavano le stelle. Il silenzio regnava. Si passò le dita sul viso, come ad assicurarsi che non avesse cambiato la sua forma.
“Ci riuscirò?”, sussurrò. “La amo tanto…”
“Prendila in casa tua…”
Le ultime parole risuonarono nel silenzio. Quando si levò in piedi, non vide più il fiore.
Strinse le mani al viso. Aveva pregato tante volte nella vita: “Rivelami, Signore, la Tua volontà, indicami quel che devo fare. Attenderò paziente il tuo comando…” Aveva atteso tanti anni. Gli pareva di sapere che cosa stesse aspettando. Quello che attendeva era giunto. Ma al contempo aveva superato le sue aspettative. Si trovava al cospetto di qualcosa di così enorme, che gli pareva che quell’enormità lo schiacciasse. Lo prese il timore. Ma in quello sbigottimento una cosa sapeva: c’era la felicità di poter tornare da Maria.
Scosse con forza il capo, come se volesse, con questo movimento, allontanare da sé tutte le recriminazioni umane.
Aprì le braccia e pregò:
“Oh Signore, non distogliere da me il Tuo Volto. Sii benevolo e misericordioso verso la mia ottusità. Adesso so che cosa mi hai ordinato di attendere. Chi mai sono io, per osare ribellarmi? Che sia come Tu vuoi. Sostienimi, se la mia intelligenza e la mia volontà si indeboliranno. Accogli la mia decisione oggi, che mi hai donato la forza… Accolgo il peso del Tuo Regno, Signore nostro…”
La nascita di Gesù
Tutti gli uomini e tutto il mondo aspettavano la nascita di Gesù. Tutti aspettavano che Dio si facesse così vicino a noi perché per noi sarebbe stato impossibile farci così vicini a Lui. Ciò che succede a Natale è la cosa più impensabile che potesse succedere: Dio non è più Qualcuno o Qualcosa di lontano, ma è un uomo vicino a noi che ha deciso di vivere la nostra stessa vita. Ecco perché a Lui possiamo rivolgerci sempre: perché, da quando è nato Gesù, Dio è diventato nostro amico in ogni situazione che ci troviamo a vivere.
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Giuseppe uscì davanti alla grotta. Si fermò, guardò all’intorno. La notte era alta, il cielo limpido e colmo di stelle. Da quel brulichio di puntini scintillanti si riversava sulla terra una cascata di splendore. Lo spazio era intessuto di una sorta di nebbia d’argento. I monti in lontananza parevano dipinti d’argento. AI di sopra delle rocce e dei campi ondeggianti si stendeva profondo il silenzio. A Giuseppe pareva che non si trattasse del comune silenzio notturno, in cui tutti dormono. Aveva la sensazione che proprio nessuno dormisse, ma che tutto, la terra, gli uomini, e perfino gli animali vegliassero in una strana tensione. Tutto il mondo pareva condividere la sua attesa.
Il cane seguì Giuseppe fuori della grotta. Se ne stava appoggiato sul suo piede, teso e vigile, con le orecchie ritte, con la coda rigida. Guardava un punto nel vuoto. Di tanto in tanto osservava Giuseppe e emetteva un breve guaito, che pareva d’intesa. Benchè facesse freddo, non era rimasto vicino al fuoco. Si aggirava qua e là, non riusciva a trovare un posto.
Uscendo dalla grotta Giuseppe notò che anche gli altri animali non dormivano. Il bue ansava sulla mangiatoia, ma aveva gli occhi aperti. Anche l’asino, benchè fosse tanto affaticato dal cammino, teneva la testa alzata.
Dalla grotta non giungeva alcun suono. Maria non gridò neppure una volta, non sentì dalla sua bocca neppure il più piccolo gemito. Mentre con Ata, amica di Giuseppe, attizzavano il fuoco, e scaldavano l’acqua, Maria stava sdraiata su un giaciglio di paglia coprendosi gli occhi con la mano. Poi aveva chiesto:
“Esci, Giuseppe, te ne prego. Quel che doveva avvenire, avverrà tra poco. Ata resterà con me. E poi ti chiamerò.”
Uscì senza una parola. Nel venir fuori dalla grotta inspirò profondamente. La grotta era piena di fumo. Non erano riusciti ad accendere subito il fuoco: la legna e la paglia erano umide. Il fumo non abbandonava la grotta, strisciava sotto la volta di pietra. Pungeva gli occhi. Ma in compenso si era fatto caldo. Invece fuori c’era un freddo rigido, mordente.
Gli attimi si susseguivano. Dalla grotta non proveniva alcun suono. Regnava un silenzio profondo. È vero – lo sapeva – che un parto può durare a lungo. Eppure non riusciva neppure per un momento a distogliere i suoi pensieri da quello che stava accadendo nella grotta. Si rendeva conto che stava realizzandosi una cosa straordinaria, incomprensibile.
“Fino a che vivrò”, pensava Giuseppe, “tornerò col ricordo a questo momento. Lo racconterò… Magari proprio a Lui? E perché Dio, che avrebbe potuto inviarlo in modo diverso, aveva voluto che ciò che doveva essere magnificenza, iniziasse nella miseria e nell’abbandono? Forse era soltanto un momento, un momento di prova? Forse quella notte si sarebbe trasformata all’improvviso in un giorno radioso, al cui splendore tutti avrebbero conosciuto la gloria dell’Eterno?”
Si appoggiò con tutto il corpo alla roccia, chiuse gli occhi. All’intorno continuava a regnare il medesimo silenzio che pareva colmato di respiri ansimanti. Il cane abbaiò. Aprì nuovamente gli occhi. All’improvviso batté le palpebre. Era come se lo avesse abbagliato lo splendore del sole. Ma il sole non c’era. La notte non aveva cessato di essere notte. Era divenuta soltanto ancora più luminosa di prima. Lo splendore che in precedenza scendeva dalle stelle, adesso sembrava diffondersi da ogni parte, come irradiato dalla terra, dai monti, dai cespugli. Tutto all’intorno pareva ardere. Sentì che lo circondava un profumo di fiori. Non ce n’erano in precedenza. Adesso vide interi prati fioriti. Dovunque guardasse si apri vano grandi calici candidi…
Dietro le spalle udì la voce di Ata:
“Oh, Giuseppe, rallegrati! Rallegrati molto. È un maschio. Hai un figlio maschio. È nato felicemente. È tanto bello. Tua moglie ti chiama…”
Entrò di corsa nella grotta. Il focolare continuava a fumare, il fumo continuava a pungere gli occhi. Attraverso il fumo come attraverso una nebbia, scorse Maria china sulla mangiatoia. Proprio là, sotto i musi degli animali aveva sistemato il Neonato. Si chinò. Sulla paglia era adagiato un Bambino, un qualsiasi bambino umano. Aveva le palpebre serrate, come se si sforzasse di non guardare, e la boccuccia socchiusa, come se cercasse qualcosa. Non era diverso dai neonati che aveva già visti. Le piccole mani, livide, strette a pugnetto, non si protendevano verso una spada. Era piccolo e debole. Aveva bisogno di cure. Il bue e l’asino osservavano il Bimbo dall’alto con sui musi un’espressione simile a comprensione bonaria. Il cane si protendeva e leccava la manina levata.
“Guardalo, Giuseppe”, sussurrò Maria. “Come è bello.”
“Bellissimo”, pronunciò in un soffio Giuseppe.
“Si chiamerà Gesù… Lo permetti, vero?”, chiese Maria.
“Si chiamerà come tu vuoi.”
“Il nostro Gesù”, sussurrò Giuseppe.
Poi, infilò le mani sotto il Bimbo e Lo sollevò.
Era leggero leggero, pareva che non pesasse più degli stracci che lo avvolgevano. Non era nato un gigante pronto alla lotta. Fra le mani sentiva il corpicino delicato, fragile. Le manine del Bimbo si agitavano con il movimento vago dei neonati. Ad un tratto aprì gli occhietti serrati. Vide l’iride scura e le cornee azzurrine. Guardò interrogativamente quegli occhi, ma il Bambino, come un qualsiasi neonato, fissava un punto nello spazio. Continuava a muovere la boccuccia.
Si alzò nuovamente, lo pose ancora nella mangiatoia.
Maria lo avvolse in un lembo strappato dalla tunica. Non avevano nulla per vestire il Bambino.
Timidamente, colmo di una nuova tenerezza, Giuseppe toccò il capo di Miriam chino sulla mangiatoia.
“Adesso” – disse lui – “devi riposarti, dormire. Lui vuole dormire. Ata veglierà. E io non mi allontanerò. Sta’ tranquilla, non chiuderò occhio. Veglierò.”
Maria volse il viso verso di lui, toccò con il dorso della mano la guancia di Giuseppe.
“So che veglierai”, sussurrò.
“Dunque dormi.”
“Dormirò.”
Sorrise ancora una volta, e poi chiuse gli occhi. Dopo un attimo dormiva. Giuseppe sedette presso la mangiatoia. Con il capo appoggiato alla mano osservava il Bimbo dormiente. Il fumo continuava a pungere gli occhi. Il cane si era accucciato vicino ai suoi piedi. Nel silenzio si sentiva il respiro delle persone e degli animali. Di tanto in tanto il fuoco scoppiettava.